lunedì 14 novembre 2016

È la nostra isola felice.... La storia di latte di Beatrice e di Tommaso.

Da quando ho sedici anni sono di avere un bambino. Un desiderio di maternità precoce che mi ha portato a litigare con tutti i miei fidanzatini del liceo terrorizzati dall’idea che li potessi “incastrare”. In realtà, più che di avere un bambino , il mio desiderio più profondo era quello di sentire un altro cuore battere dentro di me, la sensazione (schizofrenica, ora posso dirlo!) di avere un’altra vita nel mio corpo. La scoperta di essere incinta è avvenuta in un momento particolare , in cui, diciamocelo, la voglia di un figlio non era esattamente nella top ten dei miei sogni. Avevo la testa decisamente altrove. Ma il figlio c’era e il cuore batteva. Durante la gravidanza tutti sono ginecologi e dopo il parto tutti sono puericultori. Ognuno, dal fruttivendolo alla suocera, dall’amica alla conoscente su FB si sentono in dovere di seguire l’imperativo categorico kantiano di metterti a conoscenza della propria esperienza, ovviamente dispensando consigli (non richiesti) e interpretando ogni piccolo sintomo o sensazione. DA tutte queste dannose ed inutili (e direi anche inevitabili) conversazioni sono riuscita in breve tempo a maturare un terrore maniacale nei confronti del cesareo. Ma restavo comunque ottimista! Era sicura che avrei avuto un parto naturale, magari in acqua, con l’approvazione e il sostegno morale di Laboyer. Mi sbagliavo. Dopo due ore di travaglio , a seguito di un’induzione, il bimbo diventa brachicardico: CESAREO D’URGENZA. Dovessi spiegare ora, dopo quasi due anni, come mi sono sentita in quel momento non saprei cosa dire. Da quando sai di aspettare un figlio il tuo corpo non è più il tuo, non sei più tu, sei il bambino, il suo cuore, le sue mani, la sua bocca. Tu non esisti più. Svanisci risucchiata dal liquido amniotico che avvolge il tuo bambino. Quando mi hanno detto : “dobbiamo farlo nascere immediatamente, dobbiamo fare un cesareo” non ho provato la paura che mi sarei aspettata di provare in base all’ansia che avevo su questo argomento nel corso della gravidanza. Non ho provato niente. Non avevo più un corpo, né una volontà, il bambino stava male e io, sua madre, non ero in grado di farlo nascere e di proteggerlo. Mi avrebbero aperto per tirare fuori il mio bambino , per mettere al mondo mio figlio. Tommaso non respirava quando è nato e è stato rianimato Una madre inadeguata, ecco come mi sono sentita. Una madre che non è stata capace di dare il respiro vitale al proprio figlio e che non poteva stare con lui per infiniti controlli e tac. Ma sul mio cammino è intervenuto un angelo, la mia ostetrica, che mi è sempre stata vicina, che ha difeso il mio essere madre e che ha creduto in noi. Lei mi ha insegnato a massaggiarmi il seno per stimolare le ghiandole, a tirarmi il latte mentre il bambino era in terapia neonatale. Portava le poche gocce di colostro che avevo prodotto a Tommaso e gliele faceva prendere con una siringa perché nulla andasse sprecato, per non fargli dimenticare la sua mamma. E io, nella mia stanza, sostenuta dal mio compagno che non mi ha lasciato mai sola , tiravo e tiravo finchè non è arrivata la montata lattea con 39 di febbre . E di notte e di giorno portata da lui con la sedia a rotelle (ero tagliata fisicamente e nel cuore) fino al nido patologico per poter allattare Tommaso. Nonostante la lontananza delle prime ore e dei primi giorni, l’amore ci ha sintonizzato e sono riuscita a nutrire mio figlio, sostenuta e spronata dal mio compagno e dalla mia ostetrica. Non sono stata in grado di farlo nascere con le mie forze ma sono riuscita a farlo crescere. L’allattamento per me è stato il riscatto, un riscatto che mi ha permesso di risorgere da un sentimento di madre fallita nel parto. È la nostra isola felice dove possiamo rifugiarci ancora adesso dopo 20 mesi di meravigliosi occhioni.